Articolo di Aldo Tortorella su Il Manifesto 22/09/2020
Quando se ne va qualche persona che è stata importante e cara per noi, rimarrà nella nostra mente per sempre ma si porta via un pezzo di noi stessi. Così è per Rossana, come si è visto dalle parole di cordoglio sulla rete di tante e tanti che l’hanno conosciuta e amata per quello che era, anche solo leggendo i suoi articoli e i suoi libri. Per chi l’ha avuta compagna di una vita intera la perdita è una lacerazione privata difficile da dire. Compagna, scrivo, anche come parola della politica, pur se è capitato di essere su posizioni diverse o contrastanti. Ma intendo innanzitutto compagna di sentimenti e di cultura.
VENIVAMO entrambi dalla scuola di Antonio Banfi e in quelle aule dove lui insegnava la conobbi tra l’autunno del 1943 e la primavera del ‘44. Ma era di due anni maggiore di me, era un anno avanti all’università e io ero solo un diciassettenne precoce e avevo dovuto in qualche modo distinguermi per mettermi alla pari di quella ragazza che nettamente spiccava tra le sue coetanee. E ricordo bene quando le parlai veramente da compagno. Mi ritenevo comunista dal liceo, ero andato a filosofia per Banfi, già lavoravo per il Fronte della Gioventù (allora era il nome della organizzazione dei giovani di sinistra impegnati sulla pace ndr) con Gillo Pontecorvo, dopo pochi mesi sarei stato arrestato.
Ma lei non sapeva della mia attività e io poco della sua. Non so bene di che parlammo ma ho netta nella memoria quell’indimenticabile volto di ragazza con gli occhi intelligenti e scrutatori. Allora, ciò che destava l’ammirazione di quel ragazzo piuttosto presuntuoso ma non stupido (e poi sempre fino a che è diventato un vecchissimo uomo) era la scoperta, dietro quel viso delicato come un cammeo, di un vigore intellettuale e di una fermezza di volontà evidenti ma anche di una inespressa inquietudine. Fu questo, per me, il fondamento di un affetto oltre ogni distanza dettata dalla vita. Ed è questo, credo, il tratto che ha fatto grande Rossana.